«L'America si ferma per il gran finale di Lost». «Obama rinvia il discorso sullo stato dell'Unione per non sovrapporsi alla messa in onda dell'evento televisivo dell'anno». «Anche in Italia il pubblico è in fibrillazione».
Quando la fiction modifica la realtà: cronaca di un evento mediatico annunciato?
A dire il vero, trent'anni fa accadeva qualcosa di simile. Andava in scena il momento clou del capostipite di un genere destinato a fare scuola.
Era il marzo del 1980 e l'America tutta si fermava, interrogandosi: chi ha sparato a JR? Divenne uno dei tormentoni del primo lustro degli scintillanti anni ottanta. "Dallas", la serie TV più vista di tutti i tempi aveva cambiato modi e fruizioni dell'intrattenimento domestico.
L'episodio col misterioso agguato al protagonista (il più amato degli odiati, tra i personaggi di finzione del novecento) avrebbe concluso la seconda stagione, lasciando col fiato sospeso ottanta milioni di americani che erano stati incollati alla TV come neppure in una finale del superbowl.
La risposta sarebbe arrivata nell'autunno successivo, con la terza stagione: un successo inarrestabile. Tempo qualche mese – era il 4 febbraio 1981 – e Dallas sarebbe sbarcata in Italia, sulla RAI.
Fu un avvio in sordina, però. Anche perché si racconta che la TV di Stato avesse sottoposto gli episodi acquistati dalla CBS al vaglio di una «commissione vaticana» e che il risultato di tale "visione preventiva" sarebbe stato un pacchetto di puntate «passabili», che avrebbe finito per svuotare di senso la storia.
La conseguenza fu che il pubblico italiano non capì – poiché, come ha scritto Aldo Grasso, «a differenza dei telefilm fino ad allora conosciuti, Dallas era costruito da episodi compiuti che però necessitavano di essere mandati in onda con consequenzialità cronologica tale, da indurre lo spettatore ad un ascolto quasi forzato». E la prima stagione venne addirittura stroncata preventivamente.
Caso volle, a questo punto, che un giovane e rampante imprenditore stesse inventando la TV commerciale italiana, spezzando l'anacronistico monopolio RAI.
Inutile dire che Berlusconi acquistò – per trasmetterle in versione integrale – tutte le stagioni, una dopo l'altra. Arrivando a programmare due messe in onda settimanali, per stare al passo con le prime visioni americane.
Fu uno shock. Cioè, un successo senza precedenti. Nacque l'identità di Canale 5 e si diede definitivamente il via al processo di internazionalizzazione della televisione italiana che potè far crescere la televisione privata, trasformandola in concorrenziale.
Con l'introduzione di Dallas, infatti, vide la luce il fenomeno della contro-programmazione, con la quale Fininvest cercava di togliere pubblico alle reti RAI, giocando ogni volta sulla forza di trascinamento degli episodi aperti.
Dallas fu un vero e proprio fenomeno di costume. Si diffusero i divorzi. Il cinismo finì per diventare un valore. Il sogno americano aveva nomi e volti divenuti familiari e - come sottofondo - note country e atmosfera da vecchio west, ma in versione luxury.
Intrighi, belle donne, scalate societarie, sesso promiscuo e su tutto, il petrolio. Anche i maschietti vennero attratti da questa soap opera trasversale, avvincente, scandalosa.
Una saga che sconvolse la concezione antica della TV didascalica che doveva educare. E finì per macinare ascolti record in tutto il mondo.
C'erano bambine che venivano battezzate Pamela e Sue Ellen, donne che organizzavano party in stile "Dallas", manager che iniziarono a trascorrere con la propria segretaria più tempo del dovuto.
La vicenda, per chi non la conoscesse, è imperniata sul tradizionale contrasto tra il bene e il male, sul prototipo inossidabile di Caino e Abele. L'apetto innovativo (televisivamente parlando), però, è che il malvagio trionfa (quasi) sempre. Ed è una cattiveria, quella del protagonista JR Ewing, esemplare. Perché finalizzata alla sopravvivenza al tempo dell'edonismo reaganiano, a partire da Dallas, il luogo ove quindici anni prima s'era spezzato il sogno americano.
JR, poi, non è un anti-eroe solitario. Ogni personaggio ha, infatti, una sua particolare odissea del rancore da raccontare. Esperienze che rompono lo schema classico del «cattivo perché solo» dando vita a un'epopea dell'odio di straordinario fascino.
I personaggi, però, nel tempo si cristallizzano e dopo 13 stagioni e 357 episodi, Dallas chiude. Per sopraggiunti limiti d'età, forse. La serie, intanto, era passata dal primo al sessantunesimo posto nella classifica degli ascolti USA e, dopo alcune debacle narrative (Bobby che muore e poi resuscita, interpreti che causa decesso vengono sostituiti da altri per nulla somiglianti agli originali) il destino di Dallas pareva segnato.
Così, liberi dai vincoli dell'audience, gli autori possono pure permettersi una puntata finale col perfido JR che, in compagnia di un angelo custode, ripercorre le miserie della sua vita, deciso a redimersi (in Italia è andata in onda il 4 luglio 1992).
I tempi sono cambiati. La fine della guerra fredda segna l'inizio della ricerca di un'etica del capitalismo, ancora lungi dall'essere svelata.
Intanto Dallas lascia un'eredità senza precedenti nella storia dello spettacolo. E in quella di una società che – debordianamente – da esso s'emana.

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